Un año
L'eredità dell'ad a un anno dalla scomparsa
Quanto manca quel maglioncino nero (sì, perché era nero e non blu, come è stato erroneamente e lungamente dipinto), al mondo dell'auto? È una domanda doverosa, a un anno dalla
scomparsa, il 25 luglio 2018, di Sergio Marchionne. Epilogo di una parabola manageriale che ha lasciato, improvvisamente, Fiat-Chrysler e Ferrari prive di una guida dal carisma immenso, dall'intuito brillante, ma anche dai numerosi aspetti controversi. E soprattutto un'eredità insieme profonda e problematica, sotto diversi punti di vista.
L'apertura mentale. "A un anno dalla scomparsa di Sergio Marchionne, l'esempio che ci ha lasciato è vivo e forte in ognuno di noi. Quei valori di umanità, responsabilità e apertura mentale, di cui è sempre stato il più convinto promotore, continuano a guidare le nostre aziende", ha scritto ieri John Elkann. E l'eccezionale eredità di Marchionne, (a cui l'anno scorso abbiamo dedicato
uno speciale online), risiede proprio nell'apertura mentale ricordata dal presidente di FCA. Senza di essa, l'autoritratto da manager che non perdeva tempo a farsi il nodo della cravatta, perché c'era sempre qualcosa di più importante da pianificare, un'azienda da salvare, un futuro da immaginare, non sarebbe stato altrettanto originale.
Che cos'è Fiat-Chrysler, oggi? Un anno, dunque. E insieme dieci dal primo passo per la costruzione di FCA. E poi, ancora, cinque dalla sua definitiva fusione in un'unica entità aziendale con i tratti che ha ancora oggi. Tempo di fare ragionamenti, bilanci. E una domanda: che cos'è la Fiat-Chrysler che Marchionne ha consegnato nelle mani dei suoi uomini e di quel Mike Manley che ne ha preso il posto sulla poltrona di ad (e di cui molti osservatori si limitano a sottolineare la minore presenza sulla scena pubblica)?
Una tappa nel cammino. FCA potrebbe essere descritta al contempo come il prodotto di una necessità storica, quella di unire le forze in un'industria capital intensive come quella automobilistica, ma anche – vista da una immaginaria prospettiva a posteriori – come un semplice stadio di un cammino evolutivo ancora lungo, forse pluridecennale. Fatto, chissà, di altre fusioni, altre acquisizioni, altri compromessi per tagliare i costi. Una necessità per tutti gli operatori del settore (si pensi all'intesa tra Volkswagen e Ford sull'elettrico, o alla sofferenza dei conti di una macchina da soldi come la Daimler, per farsene una ragione), che la storia stessa di Fiat-Chrysler ha messo in luce a più riprese.
Confessioni. Illuminante, in questo senso, resta una presentazione che tante volte abbiamo ricordato noi di Quattroruote: "Confessions of a capital junkie". Un pdf di 26 pagine datato 29 aprile 2015, un po' vademecum industriale pro domo sua, un po' pamphlet ironicamente polemico (e irto di citazioni letterarie che danno la misura del Marchionne umanista) nei confronti di un'industria che "distruggeva valore", come scriveva l'ad nel sommario, a un ritmo presto insostenibile. Tutti noi addetti ai lavori dovremmo tenerlo nella cartella Documenti (e sarebbe bene pure andare a ripassarlo, ogni tanto).
Un appello e una lettera d'amore. Le confessioni del drogato di capitale, sotto il brillante escamotage dell'outing personale, nascondono – in senso lato – un appello allarmato al settore e – in senso stretto – una lettera d'amore nei confronti di un oggetto del desiderio, la General Motors di Mary Barra, con cui Marchionne volle, fortissimamente volle un matrimonio d'interesse. Non se ne fece nulla, tuttavia, per i ripetuti dinieghi dell'omologa d'Oltreoceano, che in cuor suo già progettava di mollare la Opel ai francesi di PSA (i quali ringraziano ancora per il gentile omaggio), e dunque tutto voleva fuorché avere a che fare di nuovo con un partner (mezzo) europeo.
Un po' di storia. Lo spessore dell'iniziativa di Sergio Marchionne, tuttavia, era chiaro a tutti, Barra compresa, già da un pezzo. Una decina d'anni, per essere precisi. Nominato ad di Fiat nel 2004, lui era uno che di auto, prima di allora, non si era mai occupato direttamente. Dunque non soltanto era lontano dalle logiche di prodotto, ma anche dalle gerarchie, dai rapporti di forza e da tutto quel non detto che regola le relazioni all’interno delle lobby di settore.
A gamba tesa su GM. Fu un bene, come ebbe presto modo di dimostrare: il primo segno del suo autoritratto da manager della Fiat,
un'opera durata 14 anni, fece subito capire a tutti quanto quell'alieno che veniva da SGS fosse pronto a partire, spesso senza preavviso, in contropiede. Come fece il 14 febbraio del 2005, quando divorziò dalla General Motors (all'epoca proprietaria del 20% di Fiat S.p.A.), strappando agli americani due miliardi di dollari per la risoluzione del Master agreement siglato nel 2000 e al contempo ottenendo la cancellazione della put option che avrebbe permesso allo scomodo alleato di Detroit di entrare in possesso del resto della proprietà del Lingotto.
La prima volta. Senza quell'apertura mentale citata ieri da Elkann, quattro anni dopo, Marchionne non avrebbe mai potuto vedere del potenziale in una realtà in bancarotta controllata qual era la Chrysler del 2009. E invece lui capì. Salì sull'aereo privato, andò a Washington dall'allora presidente Barack Obama e si fece consegnare, in cambio della semplice promessa di ridurre le emissioni dei modelli americani, il 20% di Auburn Hills.
Il merger. Fu la prima delle tantissime trasvolate (e forse già in quell'occasione aveva portato le carte per le interminabili partite a scala 40 cui obbligava il resto della dirigenza) che lo condussero verso l'obiettivo finale, quello della completa fusione tra le due aziende. Marchionne lo raggiunse tra l'agosto del 2014, quando salì al 100% della Chrysler, e l'ottobre successivo, con la doppia quotazione del nuovo titolo, FCA, per l'appunto, a Wall Street e Piazza Affari.
Rimane un nodo. Azzerato nel 2018 l'indebitamento industriale netto, sua principale preoccupazione negli ultimi quattro anni, nonché unico evento che l'ha convinto a rimettersi la cravatta (ma perché erano tutti ossessionati dal suo così moderno vezzo dell'informalità?), rimane un nodo. Quello della ricerca di un partner, che per certi aspetti rende FCA ancora un'incompiuta, di fronte alle enormi sfide che la attendono in futuro.
Avanti da soli (?). Il gruppo Fiat-Chrysler ce la può fare da solo, beninteso. Aveva iniziato ad affermarlo, dopo la cocente delusione di GM, il dirigente abruzzese. L'ha ribadito Elkann, a più riprese, nel corso dell'ultimo anno, e con lui l'erede della metà esecutiva della figura di Marchionne, Mike Manley. Non possiamo che dare credito, fino a prova contraria, alle convinzioni della massima dirigenza dell'asse Torino-Detroit.
Buco nero. Ma lo stesso, recentissimo (e per diversi aspetti coraggioso) tentativo di blitz sul fronte Renault, costituisce l'ennesima conferma dell'attualità di "Confessions" (o Confessiones, potremmo chiamarle: il Marchionne laureato in filosofia aveva perfetta consapevolezza di citare la lezione di Agostino d'Ippona). Con sulle spalle l'immane fardello dell'elettrico, della guida autonoma e dei nuovi limiti alle emissioni, le Case stanno letteralmente camminando sull'orizzonte di un buco nero finanziario potenzialmente senza fondo.
Per forza, per vocazione. Bisogna mettersi insieme, dunque. Fare squadra, sistema. Lo predicano tutti, oggi: banche d'affari, analisti, dirigenti. Sergio Marchionne, per forza coraggioso decisionista, per vocazione visionario imperfetto, lo anticipò, quattro anni fa. E il tempo trascorso dalla redazione di quell'autentico testamento intellettuale ci sta aiutando a scorgere appieno la sua statura non comune.